STEMMI IN VERONA SANT’ANASTASIA 30) ARMA BOLDERIO
Seguire questo stemma sulle pagine del De Betta, conduce a un ginepraio. Si parte con un Boldesio o Boldieri, la cui descrizione parla proprio di questo sarcofago
(foto 1) in Sant’Anastasia (a sinistra della porta maggiore), attribuito a
Gherardo. Prima cosa che non capisco: perché il dubbio sul cognome, che proprio
in questo reperto è chiarito dalla lapide sottostante (foto 2), cioè Bolderio?
Secondo dubbio: il De Betta dice di quest’arma: “è all’aquila coronata”. Lasciando
perdere la sintassi (uno stemma “all’aquila coronata”?)…E il giglio in destra
araldica? Non citato. L’autore pensa di risolvere con la voce successiva,
dicendo: “Boldieri: in pietra rilevata su suddetto sarcofago. E’ un giglio”.
Che devo capire? Forse che i nipoti Francesco e Matteo, committenti del monumento
funebre, provenissero da due rami diversi, con diverso stemma (in questo caso
però rimarrebbe da chiarire a quale ramo sarebbe appartenuto il buon Gerardo). Sempre
stando al De Betta infatti, le testimonianze relative al giglio dei Bolderio
sono numerose in Verona, ma si chiarisce anche che tale famiglia possedesse nei
pressi di Sant’Anastasia un palazzo detto “dell’Aquila dei Boldieri” (ah i bei
tempi in cui l’araldica era pane quotidiano J). Terzo dubbio: l’autore sostiene
che nella lapide sottostante il sarcofago (sempre foto 2) si veda il giglio di
famiglia. Se lo vedete voi fatemi sapere. Forse è quella protuberanza tra la la
D e la M? Lo ritengo probabile. Sempre
stando al De Betta, il Gianfilippi blasonava un giglio rosso in campo argento.
Ma non è finita qui. A fianco dell’aquila e del giglio compare un terzo stemma
(terza voce “Boldieri”, del De Betta) in cui in campo rosso compare uno
scaglione accompagnato in punta da un giglio (rieccolo), il tutto d’argento.
Qua la derivazione di altro ramo rispetto all’originario apparirebbe più
chiara, stante l’utilizzo del giglio, sebbene subordinato ad altra figura
principale, e la conservazione dei medesimi smalti. Quest’arma era già
utilizzata almeno a fine ‘400 (il De Betta ne cita una appartenuta a Francesco,
del 1494
Ogni tanto è
bene ricordare che l’opera di Ottone De Betta, del 1923, è facilmente consultabile
grazie alle fatiche di Giorgio Giulio Sartor, che l’ha trascritta e poi
pubblicata nel 2015 (Jago ed.). Citare le opere altrui… strana abitudine che
sempre più in pochi eseguono, la quale risulta essere, invece, l’unica cosa che
distingua il trarre e divulgare nozioni, dal saccheggio.
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