mercoledì 28 gennaio 2015

URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-
13): ORDINE DELLA GIARRETTIERA

HONI SOIT QUI MAL Y PENSE (“Si vergoni chi ne pensa male”) è il celebre motto che accompagna l’Ordine di cui qui si parla. Istituito, pare, da Edoardo III (nel 1349 e comunque non prima del 1346) ma ci saranno senz’altro persone più informate di me che ne potranno, se vorranno e passeranno di qui, darne ragguagli più completi e veritieri. Suggestiva e crediamo leggendaria l’origine: durante un ballo la contessa di Salisbury perse la giarrettiera, il re la raccolse e uditi i commenti maliziosi sbottò nella frase che divenne celebre motto “Honi soit” già riportato. Ho comunque io stesso incontrato numerose varianti di questo aneddoto.
Fu però Edoardo IV, più di cento anni, dopo a conferire al Federico di Montefeltro tale onorificenza, in quello (per lui) splendido e irripetibile  anno, il 1474, in cui ricevette anche “l’Ermellino” (11 Settembre, mentre la Giarrettiera risale al 18 Agosto) e soprattutto il titolo di Duca (23 Agosto) dalle mani di Sisto IV dopo che, nei primi giorni dello stesso mese, il papa aveva conferito al medesimo Federico il titolo di Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa  -si veda successivamente: 16) il palo della Chiesa- “per assicurarsi la competente e autorevole competenza militare di Federico di Montefeltro”  (Ceccarelli, cit. p. 49) in una situazione politica tanto per cambiare a dir poco fluida, che di lì a pochi mesi avrebbe portato alla lenta disgregazione della Lega Italica, e alla costituzione di due blocchi (Firenze, Milano, Venezia, da una parte; Roma, Napoli e Urbino dall’altra). Nella bruttissima foto (chiedo scusa: l’immagine  è comunque facilmente reperibile nel web. ne riporto una tratta da
http://www.handgemalt24.de/Federico-da-Montefeltro-mit-seinem-Sohn-Guidobaldo-von-Pedro-Berruguete-20291 Andando sul sito e scorrendo sulla foto è possibile ingrandirne i particolari) del quadro di Pedro Berruguete (1476) in cui vengono ritratti Federico e suo figli Guidobaldo, si possono notare, indossati dal duca,  il collare dell’ermellino (argomento già trattato in 3 ) e la giarrettiera.





martedì 20 gennaio 2015


URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-11) L’ARA DELLA SIBILLA CUMANA e 12) IL TEMPIO DELLA VIRTÙ E DELL’ONORE

Di questa foto abbiamo già parlato in 9) L’AQUILA. Ora, come avevo anticipato in quel post, accenno brevemente ad altre due imprese: l’ara della Sibilla Cumana (Ceccarelli, p. 137, che la vuole impresa di Guidobaldo II, quinto duca d’Urbino; terza in alto da sinistra, tra la bombarda e la meta)  e il tempio della Virtù (sempre risalente a Guidobaldo II, a destra del rovere e sotto all’ara della Sibilla). La prima è un altare “su cui sono posati i […]responsi [della Sibilla Cumana] scritti sulle foglie, che vengono disperse da un soffio di vento, col motto: VERVM EADEM VERSO TENVIS CVM CARDINE VENTUS “Ma se lieve all’aprirsi dell’uscio un soffio di vento…” è il verso virgiliano […] che anima il corpo di quest’impresa cara al duca Guidobaldo II…” (Ceccarelli, cit. p. 137). Lo stesso autore conferma che tale impresa  “è stata disposta tra le altre a ornamento del pavimento della cappellina che il duca Guidobaldo II fece ricavare nell’angusto vano a destra del grandioso camino della Sala delle Udienze; il ristretto piccolo locale vi si apre per accedere allo Studiolo del duca Federico di Montefeltro…” .  Mi pare quindi che quella da me fotografata possa dirsi l’impresa qui descritta, anche se, così pare, mancante dei particolari delle foglie, e del motto. Si nota invece distintamente il “vento” , impersonato dal volto soffiante.  Se invece fossi in errore, e tale impresa fosse diversa da quella dell’ara della sibilla cumana, prego, come di consueto e con la consueta gratitudine, chi sa, di parlare. Abbastanza malinconica l’interpretazione del Nardini che il Ceccarelli riporta: secondo l’autore con quest’impresa, Guidobaldo II “volle dimostrare che le sue speranze, le sue illusioni, i suoi più ardenti desideri […]svanirono come i responsi sibillini dispersi dal vento. Fu ambizioso, sognò il fasto e le grandezze, ma vide sempre esausti i suoi forzieri. Agognò alla gloria, ma i tempi non gli furono favorevoli e la fortuna non gli arrise mai. Egli, dunque, tutto attese dall’altare della Sibilla e nulla ottenne.”.  


Come detto, nella foto è visibile anche il tempio della Virtù e dell’Onore. Il Ceccarelli riporta l’anima  HIC TERMINVS HAERET , che qui non appare.  L’autore ci spiega citando il Picinelli,  che “il tempio della Virtù e dell’honore, da Marco Marcello furono edificati l’uno annesso all’altro, inferendo che per le strade della virtù si portavano gli animi nobili all’acquisto dell’honore”.  Le due torri quindi, simboleggiano le suddette “virtù” e “onore”, mentre il motto viene tradotto con “Qui è fisso decreto”. In pratica, secondo Guidobaldo II,  era “obbligatorio” il culto di virtù e onore, tanto come nel tempio quanto come nel suo Stato, visto come “tempio terreno ricevuto per grazia di Dio” (Ceccarelli, corsivo suo). Sempre il Ceccarelli conferma la disposizione di quest’impresa, anche nel pavimento della cappellina (vedi sopra).
 

martedì 13 gennaio 2015

URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-10) SFORZESCHE:
10.3 (di 3): IL MORSO
La frase di Antonio Conti, ripresa da
http://www.iagiforum.info/viewtopic.php… e da noi parzialmente riportata nel topic sui tizzoni ardenti e secchi (10.2 di 3) al completo suona così: “In conclusione le riporto un caso "urbinate" che potrebbe avere a che fare con i compassi dei Galuppi.
In quel di Urbino, molti studiosi d'arte e di storia dell'arte, ma non solo, hanno spesso indicato un'impresa usata da Federico da Montefeltro come l'impresa "delle spirali" perché vedevano rappresentate due spirali legate assieme ad un capo e terminanti nell'altro con delle punte divaricate a mo' di compasso. Qualcuno si è anche sbilanciato a dare spiegazione del significato di queste spire .
Si trattava invece dell'impresa Sforzesca cosiddetta "del morso", donata a Federico o adottata dallo stesso visti gli strettissimi rapporti che lo legavano a quella famiglia a partire dai due fratelli Francesco (poi duca di Milano) ed Alessandro (poi signore di Pesaro).
Per quanto l'impresa non nasca per stare dentro ad uno scudo, non mancano esempi di imprese rappresentate entro gli scudi come ornamenti architettonici (ma questo è un'altro discorso...). Tale frase infatti si riferiva propriamente all’impresa che qui trattiamo, quella del “morso”. Al Conti non poteva certo sfuggire la derivazione “milanese” della stessa e infatti correttamente lo afferma. La Guerreri la fa risalire a Giangaleazzo Visconti
http://www.storiadimilano.it/arte/imprese/Imprese05.htm, ove si apprende anche l’anima dell’impresa stessa: “Ich vergies nicht”, ma altrove dà prova di una ripresa “sforzesca” della medesima
(http://www.storiadimilano.it/arte/imprese/Imprese07.htm, quando parla della fontana del castello sforzesco in Milano).
Chi invece ancora una volta tace in tal senso è il Ceccarelli, che, come accaduto per le precedenti imprese sforzesche riprese dal duca di Urbino, per l’appunto tratta anche questa come impresa originale della corte urbinate. Egli infatti afferma che le moraglie attaccate alle redini (così le definisce lui: le moraglie sarebbero” i freni boccali seghettati a spirale da collegarsi al morso e da attaccare alle redini…” –corsivo dell’autore, nota mia-) erano state adottate da Federico, con il motto BELLI FVLGOR ET PACIS AVCTOR per ribadire il concetto, caro al duca, di pax armata: ovvia l’”allegoria” del cavallo da guerra, governato e frenato oppure lanciato al galoppo nella battaglia tramite il sapiente uso delle moraglie (alias rispettivamente della diplomazia o della guerra). Sicuramente tale spiegazione del Ceccarelli è del tutto coerente, ma, come detto, manca anche qui il richiamo all’origine (almeno del “corpo” dell’impresa) all’ambiente sforzesco a cui all’epoca quello urbinate era legato a doppio filo. Interessante l’etimologia di “moraglia” riportata dall’autore: essa deriva dal francese “moraille”, a sua volta pervenuto dal latino “mora” che significa “indugio, sosta, ostacolo impedimento”.

la foto postata per prima è tratta da http://www.storiadimilano.it/arte/imprese/Imprese05.htm







mercoledì 7 gennaio 2015

URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-10) SFORZESCHE:
10.2 (di 3): BISCIONE E TIZZONI ARDENTI
Non so dire invece nulla, dello schizzo che ho immortalato e che qui appare in foto 4., a parte il suo rievocare la (in questo caso)  generica storica alleanza Milano-Urbino ai tempi di Federico (magari il disegno faceva parte di un progetto di stemmi di famiglie alleate con cui ornare la stanza?) . Lo stemma  inquarta un vero e proprio emblema araldico (nel senso che fa parte propriamente di uno stemma) e, cioè, ovviamente,  il biscione, con un’impresa, cioè quella dei tizzoni ardenti con funi e secchi. Qui citiamo Antonio Conti che in 
 http://www.iagiforum.info/viewtopic.php?f=1&t=1118&p=11445&hilit=compasso#p11445 ricorda come “Per quanto l'impresa non nasca per stare dentro ad uno scudo, non mancano esempi di imprese rappresentate entro gli scudi…” . Questo fenomeno lo si può osservare, ad esempio,  nella foto dello “spazzolino” milanese tratto dallo studio della Guerreri.  Quel che però riporto qui è  un …binomio stemma (parte di esso)/impresa all’interno di uno stesso scudo.
L’appena citata (e pluricitata ) Guerreri  qui 
http://www.storiadimilano.it/arte/imprese/Imprese04.htm, (link da cui traggo le ultime due foto) attribuisce l’impresa dei tizzoni e secchi a Galeazzo II Visconti; ma se a volte è possibile stabilire la data di entrata in vigore di un’impresa (e quindi anche il nome del suo titolare) è probabilmente meno  possibile stabilirne quella della … sua cessazione d’uso e quindi capire da quando e a opera di chi questa fu abbandonata. Anche per i tizzoni, noi stessi abbiamo dimostrato che il loro uso pare non debba essersi esaurito con la dinastia viscontea ma sia proseguito nel ramo Sforza. Qualcuno ricorderà un mio  post della primavera scorsa  in cui riportavo le fotografie eseguite nella rocca di Soncino, più precisamente nella cappella, voluta da Galeazzo Sforza, quinto duca di Milano, nelle quali si può ammirare lo stemma ducale della famiglia, cimato dall’impresa dei Piumai (dono di Alfonso d’Aragona a Filippo Maria Visconti, terzo duca) e circondato proprio da quella dei tizzoni ardenti e secchi (riporto la foto per comodità –foto 3-). Perché non ricondurre anche questo stemma tratteggiato in Urbino a Battista Sforza o comunque a quelli che l’appena incontrato Antonio Conti giustamente definisce (sempre nel link sopraccitato) “gli strettissimi rapporti che lo (Federico, nota mia)  legavano a quella famiglia a partire dai due fratelli Francesco (poi duca di Milano) ed Alessandro (poi signore di Pesaro)”, legami a cui abbiamo pure noi già conferito il giusto risalto? Certo, il Conti nel suo intervento si riferisce all’impresa del “morso” (la 3 di 3, che incontreremo subito dopo questo post), ma –confortati dall’autorità del parere- riteniamo si possa procedere, in questo caso, ad allargare il campo di questa affermazione anche alll’impresa della scopetta e forse a questa dei tizzoni.  
Purtroppo di questo stemma/impresa non ho trovato riscontro nei testi, e un’attribuzione “diretta” a Battista Sforza invece che ad un generico (quanto reale e strettissimo!) sodalizio Montefeltro/Sforza, parrebbe cozzare anche contro un altro dato di fatto: nello studio che il Dal Poggetto esegue sulla camera picta degli Uomini d’arme del Boccati (seconda sala dell’appartamento della Jole, piano nobile del palazzo ducale di Urbino) che sta nel citato Piero e Urbino (pp. 280 e segg.), lo studioso rende edotto il lettore di alcuni risultati, alcuni ottenuti mediante l’esame alla luce di Wood su alcuni stemmi delle vele. Oltre ai soliti inquartati e aquile feltresche, appaiono  due armi che inquartano lo stemma a bande  azzurre in campo oro con un leone “ritto sulle zampe posteriori” e “con tra le zampe anteriore, un frutto, il cotogno. E’ con tutta sicurezza lo stemma di Battista Sforza”. L’arma appare due volte da sola, e due volte, come detto, inquartata con lo stemma di Federico. E’ notoriamente l’arma “antica” degli Sforza che ricorda –mediante il parlante cotogno-  le loro origini da Cotignola.  Stando a questo, quindi, Battista usò come suo stemma l’arma che più la legava alla famiglia, disdegnando quella “ducale” assunta dai Visconti. Ma è inutile allestire un processo alle intenzioni: nulla vieta un uso libero e non esclusivo (e quindi multiplo) della gamma araldica di una famiglia e comunque lo stemma con l’impresa dei tizzoni –nel Palazzo Ducale- c’è. Ovviamente, come sempre, tutte queste sono ipotesi che qualche già acquisita certezza, che io ignoro, potrebbe spazzare via in una riga. E io sarò ben lieto di accoglierla.


venerdì 2 gennaio 2015

POST DEL 31 DICEMBRE 2013 E INTEGRAZIONE DELL'11 APRILE 2014

AGGIUNGO QUI DI SEGUITO L'ALTRO (RISPETTO A QUELLO APPARSO NEL POST DELL'11 APRILE 2014, CHE SI TROVA IN CECINO -BS, E CHE QUI RIPORTO NELL'ULTIMA FOTO) STEMMA DEI FEDERICI DELLA DEGAGNA (BS), QUELLO PRESENTE NEL DIPINTO STANTE NELLA PRIMA CAPPELLA A DESTRA DELLA CHIESA DI S. MARTINO (POSTO ANCHE UNA MIA RECENTISSIMA RIELABORAZIONE DI ENTRAMBI).