venerdì 28 novembre 2014


URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO- 4) e 5): LO STRUZZO E LA GRU

 

LO STRUZZO     

Secondo Francesco V. Lombardi (I simboli di Federico di Montefeltro, in Piero e Urbino, cit.) l’impresa più antica di Federico “dovrebbe essere” lo struzzo, “In quanto ereditata dal nonno conte Antonio (m. 1404)” poiché al centro del suo sarcofago è rappresentato l’animale in questione. Il pezzo di lancia nel becco è spiegato dal cartiglio in tedesco antico “ICK KANN VERDAUEN EIN GROSSE EISEN”, cioè “Io posso ingoiare un grosso ferro” e quindi superare qualsiasi avversità. Il Lombardi suggerisce però che “forse” questa frase possa alludere anche al famoso incidente nel torneo del 1451, in cui Federico, a causa di un colpo di lancia (quindi di “ferro”) perse un occhio e diciamo così “acquisì” (c’è chi dice che l’asportazione di un pezzo di osso nasale non fu direttamente causata dal sinistro ma  fu volontaria e che Federico l’avrebbe voluta per poter vedere meglio con l’occhio rimasto. Dato il lavoro che faceva una buona visuale  era piuttosto importante…)il caratteristico e inconfondibile profilo. Non a caso il primo capitolo del “Federico da Montefeltro” di Boeck e Tömmesmann (Cit.) si intitola: Il naso d’Italia…  Da questa tesi però, discenderebbe che almeno “l’anima” (cioè la parte testuale, riportata nel cartiglio) dell’impresa dello struzzo dovrebbe risalire ai tempi di Federico (il “corpo”, cioè il simbolo figurativo, di essa invece come abbiamo visto rimarrebbe comunque antecedente di un secolo, visto che si trova sul sarcofago del conte Antonio).  Non è assolutamente d’accordo su questo il Ceccarelli (Non Mai, cit. ), che, anzi, afferma come l’allusione alla non semplice attività di digerire un grosso pezzo di ferro, rimandi direttamente alla memorabile prodezza del suddetto Antonio di riconquistare Urbino, nella seconda metà del XIV secolo, dopo diciassette anni di esilio. L’autore poi dà contezza dei dubbi che da sempre hanno circondato lingua e senso del motto, dubbi dovuti, a sentire lui (che riporta il parere di non meglio precisati “alcuni”) al fatto che detto motto sarebbe “una mescolanza ortograficamente impropria di antico tedesco e antico inglese”, o, secondo altri, scritto in tedesco in maniera scorretta. Il Ceccarelli riporta altra lettura rispetto a quella da me scritta all’inizio, come ad esempio: “I CAN VERDAIT EN CROC ISEN”, comunque poi ritradotta nell’ ICK KANN VERDAUEN EIN GROSSE EISEN che ho riportato all’inizio. L’autore urbinate avverte poi che lo struzzo appare a volte pure senza cartiglio nel becco, e a volte con quest’ultimo direttamente sostituito dal pezzo di ferro.

LA GRU               
Il Santi diceva che Federico “era sempre vigilante e desto” (Lombardi, cit.). Lo stesso Lombardi pretende che questo verso derivi direttamente dall’impresa della gru e noi glielo lasceremo dire, ché prove al contrario non ne abbiamo. La cosa importante è spiegare il perché: secondo tradizione tale pennuto, anche quando sconfiggeva gli avversari, rimaneva vigile al punto che dormiva soltanto su una zampa, tenendo nell’altra una pietra, in modo che, in caso di sonnolenza e conseguente addormentamento, la caduta della pietra stessa l’avrebbe subito risvegliato. In araldica questo è un particolare non da poco, perché permette spesso in caso di stemmi poco leggibili (o di araldofili poco …leggenti) di distinguere immediatamente tale volatile da qualsiasi altro (struzzo, cicogna, ecc.).  Sempre araldicamente, tale pietra è definita, a ragione quindi, vigilanza (per esempio: d'oro, alla gru con la sua vigilanza sulla pianura verdeggiante, il tutto al naturale, cioè lo stemma del comune di Colturano, Milano).Spero di non sbagliare, ma nella foto  (n.  2) del soffitto dello studiolo in cui appare una specie di compendio delle imprese federiciane (e di cui diremo), è possibile proprio apprezzare la differenza tra gru e struzzo, nella fila più in basso (rispettivamente seconda e quarta immagine da sinistra).  Inutile soffermarsi sugli evidenti parallelismi che si possono trarre dal comportamento del trampoliere, quali la prudenza, l’essere vigili e accorti, il sacrificare il sonno e il riposo del Principe, per proteggere i sudditi, ecc… Ovviamente tali significazioni spiegano il perché dell’assunzione dell’impresa da parte del Duca. Il motto nel becco dell’animale è “Officium natura docet” cioè “la natura insegna il da farsi”. Bella la carrellata della descrizione del trampoliere in vari bestiari medievali, che fa il Ceccarelli nel suo Non mai (cit.). Tra essi notiamo che Richart de Furnival, nel suo Bestiaire d’Amours, si discosta leggermente dagli altri, in merito alla vigilanza: secondo lui infatti il sasso non risvegliava, cadendo e facendo rumore, la gru posta alla sorveglianza delle altre (che invece dormono) colta dal sonno, ma semplicemente non la faceva dormire in quanto non le consentiva un perfetto equilibrio. Ma è, come detto, l’unica voce fuori dal coro: tra testi araldici e non, io ho sempre sentito soltanto la versione del sasso che risveglia il pennuto, cadendo. Concludiamo con gli stupendi versi di Cecco d’Ascoli nel suo L’Acerba (sempre riportati nell’opera del Ceccarelli):
Hanno le gru ordine e signore  
e quella che conduce spesso grida         
corregge e amaestra lor tenore.             
Se questa aranca, l’altra in ciò soccede;              
quando dorme, questa che è lor guida,               
la guardia pone ch’alcun no lle prede.                 
Questa                 che guarda, sta con l’una gamba,                         
nell’altra tien la pietra, che se dorme,                  
cadendoli, de suon l’occhi stramba.      
Così dovria ciascun cittadino,   
l’un co l’altro esser conforme,  
che non venisse lor terre al dichino.       
               



venerdì 21 novembre 2014


URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-2):  LE FIAMMELLE (DIVISO IN 2/A E 2/B)

 L’impresa delle fiammelle è quella che senz’altro mi è apparsa come la più suggestiva, non tanto “vedendola”, ma “leggendone”. Tento di spiegare perché.


 

2/B

A pagina 148 (e seguenti) del già citato Piero e Urbino, Francesco V. Lombardi, nel suo UN MISTERIOSO SIMBOLO DI FEDERICO NELLO STEMMA DI PIERO DELLA FRANCESCA, riprende molti aspetti già trattati nel nostro post 2/A (al quale, quando sarà il caso, rimanderò) ma anche altri di nuovi, su cui soffermeremo qui la nostra attenzione.  Richiamo l’attenzione di tutti però a quanto Antonio Conti ha evidenziato nel suo commento relativo al post 2/A e alla sua tesi, del tutto “rivoluzionaria” rispetto a quelle là da me riportate, tesi che appare più convincente e meno fantasiosa delle precedenti, dai punti divista araldico e storico e che, al di là della diversa attribuzione dello stemma presente nel fregio con il grifo, scinde del tutto le fiammelle in esso presenti, dalle fiammelle intese come impresa e riscontrabili un po’ in tutto il Palazzo Ducale (p. 231).
Com’è bene che accada ognuno trarrà  le conclusioni da lui ritenute più opportune. A me invece, come sempre, sta a cuore fornire al “profano” o comunque al non specialista (categorie in cui come è notorio mi inserisco in pieno) la visione più completa possibile di quanto si dica o si pubblichi su un determinato argomento.

Prima che il Prof. Borgia, a me carissimo, mi bacchetti idealmente, evidenzio però il mio dissenso verso il termine “simbolo” anziché “emblema” utilizzato nel titolo dal Lombardi. A chi interessasse la differenza rimando agli atti del convegno tenutosi a Como nel Giugno 2013 (visibili in ARALDICA TV, “Introduzione all’araldica” di Luigi Borgia AIH) o a quanto da me indegnamente ripreso nel mio “Signa” sull’argomento (per chi ne fosse interessato, potrei pubblicare lo stralcio relativo).

Il Lombardi, dopo aver ripreso in maniera del tutto simile a quelle già esaminate, il discorso delle fiammelle presenti sull’alcova, e quello sul fregio del caminetto con il giovane Montefeltro e il grifone, esegue un minuzioso elenco in cui tale “divisa” compare nel Palazzo Ducale. Sin qui nulla di nuovo: compagnia della Calza, Accesi, Federico giovinetto, FC che si commuta in FD trattandosi “solo di far chiudere il tratto aperto della c con un’asta verticale e leggermente spezzata all’indietro”. Cose già viste in 2/A e commentate/confutate come detto da Antonio Conti.
Il Lombardi aggiunge però un’altra interpretazione: quella dantesca. Citando il Micelini Tocci e il suo Introduzione a il Dante urbinate della Biblioteca Vaticana, l’autore si dice certo che un “codice di Dante” (sic) fosse presente alla corte di Urbino sin dal 1352 “ e certamente c’era il culto per quel grande personaggio che fu il Conte Guido da Montefeltro (Inf. XXVII) che Dante aveva poeticamente trasfigurato in una lingua di fiamma”. Un rimando che a me pare assai vago, ma che io riporto pari pari.  Come vago e superato dalle appena apprese tesi di Antonio Conti (che identifica l’animale chimerico come rimando diretto al Piccinino), pare il voler identificare il grifone cavalcato dal putto non solo  come “sintesi” tra l’animale “più perfetto” in cielo e il più potente della terra, cioè tra aquila e leone, ma anche come binomio Urbino/Venezia, cosa che doveva rendere l’emblema del fregio “di grande utilità ogni qualvolta i rapporti con la Repubblica Veneta venivano ad irrigidirsi  a causa della leale, costante adesione del signore di Urbino verso il re di Napoli e verso il papa: poteva sempre ricordare e mostrare agli ambasciatori veneziani l’antico legame con loro città”. Immagino che le doti diplomatiche del Duca andassero ben oltre questo e non dovessero far ricorso ad un fregio in pietra…             
L’elemento senz’altro più interessante, e -anche dal punto di vista strettamente araldico- tutto da verificare,   che il Lombardi introduce       è la supposta “devoluzione”  federiciana  (come secondo l’autore accadde anche per il Paltroni e “forse anche con Ludovico Odasi”, ma anche tra Galeazzo M. Sforza e Giovanni Bentivoglio: gli stessi Bentivoglio che cita Antonio Conti nel suo saggio su Nobiltà –si veda link in suo commento a 2/A-?)a Piero della Francesca, e delle fiammelle e del grifone. Qui però mi rimetto del tutto a chi ne sa di più, perché la pessima foto tratta da “Piero e Urbino” non mi permette nemmeno di verificare se si tratti davvero di fiammelle e soprattutto se la presunta “testa e collo di grifone” sia tale o non appartenga piuttosto ad un pennuto.  Il Lombardi comunque cita uno stemma sul sepolcro dell’artista così intimo a Federico e “quello di un camino a Sansepolcro” quindi non dubito della sua interpretazione araldica. Egli conclude così il suo saggio: “Dunque le fiammelle e il grifone del fregio di un camino scolpito con l’immagine di Federico di Montefeltro ritornano nello stemma nobilitato di Piero della Francesca . Non può essere un caso.”.  

mercoledì 19 novembre 2014


URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-2):  LE FIAMMELLE (DIVISO IN 2/A E 2/B)

 L’impresa delle fiammelle è quella che senz’altro mi è apparsa come la più suggestiva, non tanto “vedendola”, ma “leggendone”. Tento di spiegare perché. DIVIDO L’ARGOMENTO IN DUE SEZIONI, LA 2/A –questa- E LA SUCCESSIVA 2/B.

 

2/A

Già Paolo del Poggetto (in Piero e Urbino, cit. p. 321) ne parla, ma egli stesso rimanda al saggio, in questo senso più completo, del Lombardi presente nella stessa opera Piero e Urbino. Il primo autore sta esaminando  l’”Alcova del Duca” (o “Lettiera” di Federico da Montefeltro)  e si imbatte pertanto nell’impresa di cui qui si parla. Rigetta da subito, come vedremo fare al Lombardi, l’idea che tali fiammelle possano rappresentare, come vorrebbe un’interpretazione tradizionale del Nardini, risalente al 1931 e poi sempre pedissequamente ripresa, “la  summa delle tre onorificenze più importanti ottenute da Federico nel ’74 (il gonfalonierato, il collare dell’Ermellino, l’ordine della Giarrettiera)”. I dubbi gli nascono sia dal fatto che le tre fiammelle sono rappresentate nell’alcova in numero di sei e non di tre, e altrove, nel palazzo, anche di nove; sia perché inquartate –sempre nell’alcova- con la sigla in lettere gotiche che tanto ha messo in difficoltà gli studiosi e che potrebbe essere dirimente per la nostra questione . Il Del Poggetto, nel 1983, l’aveva risolta in F F (Federicus Feltrius), ma nel testo da me qui citato, ci ripensa ne dà un’interpretazione più corretta e intrigante: come furono corrette da conte a duca [e quindi da F(EDERICUS) C(OMES) a F(EDERICUS) D(VX)] “le sigle nella pietra” in lettere capitali, “non è difficile pensare ad una assai più semplice correzione pittorica sul legno dell’alcova”,(nella foto 1, l’inquartato di cui si tratta, ma presente nel soffitto dello studiolo. Foto tratta da Piero e Urbino cit.) tanto più che in linea generale, aggiungo io, in grafia gotica è semplicissimo mutare la “c” minuscola in “d”, aggiungendo una semplice asta allungata sulla destra della lettera.  Se così fosse, le tre (che poi, come detto, sono sei) fiammelle dell’alcova non potrebbero rappresentare le altrettante dignità di cui sopra, ottenute nel  1474, e quindi nello stesso anno del conseguimento del titolo ducale, in quanto inquartate con (e pertanto coeve della) sigla FC (quindi Federico Conte) e non di quella FD (Federico Duca), solo successivamente modificata in tal senso. C’è  di più, aggiungo io: stando al Ceccarelli questa è la cronologia delle onorificenze ottenute da Federico nel 1474: 18 Agosto: Giarrettiera; 11 Settembre: Ermellino (data confermata anche dal Lombardi). Come  ricordano Roeck e Tönnesmann, il titolo ducale fu conferito il 21 Agosto del 1474, e quindi “a cavallo” tra il conferimento di Giarrettiera e Ermellino. Da questo si deduce come sia impossibile che le tre fiammelle rappresentino le tre onorificenze (le due esaminate e il Gonfalonierato), giacché sono inquartate con la sigla FC(omes), che almeno per quanto riguarda l’Ermellino, non era più valida perché ai tempi  del conferimento, Federico era Duca da quasi un mese. 
Ma il Lombardi (I simboli di Federico di Montefeltro, sta in Piero e Urbino, pp. 135 e segg.) aggiunge particolari assai interessanti e lo fa partendo da un fregio erratico di pietra, presente nel palazzo ducale di Urbino (foto 2-3-4-5) . Il putto conserva nel viso (e qui c’è accordo tra il Lombardi e il Ceccarelli) le fattezze adolescenziali del viso di Federico.  Egli cavalca un grifone , tiene nella mano destra un libro e porta sulla spalla lo stemma Montefeltro. Ma è lo scudo che afferra il grifone a destare interesse: in esso infatti sono rappresentate delle fiammelle.  Sebbene il fregio sia da far risalire al 1459-60, è il profilo dell’adolescente Federico a suggerire il periodo cronologico da prendere in considerazione. A undici anni fu mandato in ostaggio a Venezia , come pegno in garanzia della seconda pace di Ferrara. Rimase là per quindici mesi, e in quel lasso di tempo fu accolto in una compagnia di giovani aristocratici, intrisa di ideali cortesi, “fra cui l’amore cavalleresco e trobadorico per le donne”  (Lombardi). Era la famosa Compagnia della Calza, “così chiamata perché tutti vestivano allo stesso modo, ostentando «le fiamme d’amore», tanto che venivano chiamati anche «Accesi». Secondo noi questa fu la divisa di Federico adolescente che poi, per ragioni di convenienza politica, si portò dietro per tutta la vita , vantandosi di questa sua giovanile e incorrotta fede negli ideali, specie con gli ambasciatori veneti che tentavano di corrompere la sua lealtà verso il papa e il re di Napoli (Lombardi) (foto 6). Nello studiolo, sotto alle fiammelle (foto 7) compare anche il verso di una canzone: “Jay pris amor a may devise…” (“ho scelto amore come mia divisa…”). Secondo il Lombardi anche il fatto che queste fiammelle siano inquartate con lettere scritte in gotico (prima FC e poi FD, come visto), sarebbe indicatore del fatto che “la loro radice risaliva ai tempi in cui ancora non erano state rivivificate le belle lettere rinascimentali di antica matrice romana”.
Il Ceccarelli conosce la lezione del Lombardi, in quanto la cita, ma finge di scordarsene, di fatto ricusandola (anche per mano del Bagatin*), dapprima dando credito alla tesi delle tre onorificenze (vedi righe precedenti) e poi perdendosi in barocche escursioni “sull’espressione visiva dell’incorrotta fedeltà di Federico agli elevatissimi ideali di vita..” ecc., ecc. degne del “miglior” araldista seicentesco. 

E in realtà (mi concedo una divagazione, anche per far inquadrare meglio una delle fonti a cui mi sono rivolto)  questo del Ceccarelli è un libro assai strano:  può dirsi prezioso, ricco com’è di meravigliosi aneddoti tratti da lunghissimi stralci (posti specialmente  in nota) di testi originali, corrispondenza e fonti, che restituiscono pennellate di vivide vita quotidiana (anche se soltanto dei “vip” del tempo) e dettagliato negli avvenimenti storici che certamente l’autore conosce a menadito, nonché utile per gli inserti sulle imprese feltresche. Ma certo la sua (comunque non poca) utilità, a nostro modestissimo parere, finisce qui. Chi volesse cercare una chiave critica delle gesta federiciane rimarrebbe deluso. L’ampolloso autore urbinate si inserisce piuttosto, con il suo libro, come l’ultimo (in senso cronologico, visto che il libro è del 2002…) tra i cronisti encomiastici che riempivano la Penisola con le loro righe grondanti lodi per il loro signore e il suo indiscusso buongoverno, esaltandone sino ad idealizzarle le virtù e tacendo i difetti e le ovvie ed inevitabili manchevolezze.  E così il Ceccarelli non riesce ad ammettere nemmeno –definendola: “fantasticare le più inaudite supposizioni…”- il fatto (da altri storici dato ormai per certo) di attribuire la paternità di Federico, non a Guidantonio, che in realtà sarebbe il nonno, ma a Bernardino Ubaldini della Carda (stemma Ubaldini in Urbino foto 8); oppure neppure accenna all’ipotesi (da altri storici data ormai per fatto certo) che dietro all’assassinio del legittimo Signore e Conte  di Urbino, Oddantonio, avvenuto nel 1444, ci sia la mano proprio del fratellastro (?) Federico (la stessa mano che, insieme ad altre,  ordì la Congiura dei  Pazzi), prontissimo, già dopo pochi giorni, a prendere le redini del comando. Pare persino ovvio, che con un modo così platealmente schierato di fare Storia, i nemici diventino tutti iniqui, ricolmi dei più orrendi e nefasti vizi (figuriamoci un po’ il povero Sigismondo Malatesta come poteva uscirne, se non come fosse “noto in tutta Italia per la sua subdola slealtà”, che “preferì la guerra anziché recarsi a Roma a discolparsi umiliandosi al cospetto del pontefice”, ecc. ecc. mentre ovviamente su quest’altro fronte Federico e il papa risplendevano in ogni frangente per umiltà, compassionevole pietà, lealtà e giustizia…, difensori da un certo punto in poi degli splendori della Cristianità, contro “le bandiere della mezzaluna, che garrivano ai limpidi cieli cristiani degli arabescati versetti del Corano, non promettenti alcunché di buono con la loro ricamata inintelleggibilità”). Per il Ceccarelli ciò che scrive il Paltroni neii suoi Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico Duca d’Urbino,   è oro colato da cui ricavare “vivida l’immagine complessa di quest’uomo singolarissimo che seppe armoniosamente conciliare e coniugare la dura vita del condottiero di eserciti col gusto tutto cortese e gentile del cultore delle humanae litterae da cui gli pervenne quella profonda conoscenza degli uomini e quella penetrante sapienza delle cose, che lo resero celebre in tutta Italia e in Europa per l’acutezza di giudizio, per il vasto sapere e il munifico mecenatismo”.  E questo funga da premessa e da istruzione per l’uso di questo libro, per molti aspetti (o comunque per me)  “arcaico”.

 

* Pier Luigi Bagatin asserisce (e il Ceccarelli come detto, riporta ciò nel suo libro) che l’ipotesi del Lombardi è “suggestiva” ma attende conferme, e nel frattempo non “assurge a prova piena, in quanto, nel variopinto arcipelago veneziano delle Compagnie della Calza” –più di trenta nell’elenco di Marin Sanudo di fine ‘400- gli “Accesi” sono gli ultimi a sorgere, e comunque dopo il 1533” e quindi  dopo un secolo esatto rispetto all’epoca di Federico undicenne, ostaggio a Venezia. Ma a questo punto il problema non è più solo “araldico” ma si fa storico tout court.

Nel segnalare in foto 8, un particolare araldico dell’”alcova” di cui si parlava prima, e che nelle foto 9-10-11 si può osservare una “migrazione” delle fiammelle tutt’intorno all’aquila feltresca , rimando ad altro “post” (il 2/B) un altro aspetto assai interessante relativo a quest’impresa.











 
 
NELLA PAGINA F.BOOK IL CAFFE' ARALDICO, ANTONIO CONTI POSTA UN SUO PEZZO APPARSO IN "NOBILTA'" CON CUI ESPONE TESI DEL TUTTO DIVERSE DALLE PRECEDENTI. ECCO QUA IL LINK http://www.scribd.com/doc/116102251/Un-Fregio-Enigmatico-Al-Palazzo-Ducale-Di-Urbino-2003

venerdì 14 novembre 2014


Per chi non l’avesse fatto prima, raccomando di leggere prima di questo post, e di tutti i successivi riguardanti l’argomento, di prendere visione di quello postato da me l’11 novembre 2014 alle 11:09.

 

 

URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-1):  LA BOMBARDA

Più che un’impresa, un marchio d’impresa, un marchio di fabbrica, lo spot della specialità della casa. Non SOLO un rimando sottile e simbolico a qualche verità da decriptare tramite un motto, , ma soprattutto come detto, il vanto della “premiata ditta Federico da Montefeltro”, specializzata in battaglie e guerre. Francesco Lombardi  (I Simboli di Federico di Montefeltro, in Piero e Urbino, cit.), ricorda come i primi approcci di strategia militare, Federico li ebbe da Niccolò Piccinino, uno specialista nell’uso di artiglierie e che quindi “nulla vieta di pensare che la ricevette in dono dal grande capitano, proprio per le sue precoci doti di stratega militare”. Solo il mostrarle, pare incutesse terrore e sgomento tra gli assediati, come durante le battaglie della cosiddetta guerra dei Pazzi (in cui il Duca sperimentò anche rudimentale artiglieria chimica –Simonetta, cit.-). Con la consueta sottile ironia degli uomini da guerra di tutti i tempi pare che se ne vantasse e soprattutto le battezzasse con simpatici epiteti, come “La Crudele”, “La Disperata”, “La Rovina”. Il peso variava e tra le più grosse ve n’era una in due parti di 14.000 e 11.000 libbre ciascuna, che sparava pallottole di pietra da 370-380 libbre. Il Rinascimento non era solo marmi e codici miniati. (ps: si noterà in una foto,  LA TERZULTIMA, come il trave di un focolare sia stato rimontato in maniera errata e proprio l’impresa della bombarda ce lo svela perché essa appare “al contrario”).  In realtà a istinto l’avrei messa anch’io così… ma qui, http://www.iagiforum.info/viewtopic.php?f=1&t=12032&p=143407&hilit=bombarda#p143407 è possibile vederne una in maniera dettagliata, benché di modello assai diverso, (SI VEDA PENULTIMA IMMAGINE TRA QUELLE QUI POSTATE DA ME)  “sospinta in ascesa da fiamme rosseggianti” (Francesco Lombardi,  cit.). Certo è che l’anonimo gestore della Vendita Infiammabili, Benzina, Acqua Ragia, Spirito e Petrolio n. 75 in Brescia che (immagino) parecchio tempo fa si fece realizzare la bella insegna che potete ammirare nell’ultima foto, poté fregiarsi, immagino del tutto casualmente, di una effige simile alla bombarda duchesca, quella messa “storta” però;  anche, se nel caso dell’insegna del suo negozio, la fiamma è correttamente posto verso l’alto, non volendosi rappresentare una bombarda ma semplicemente del fuoco che brucia (ULTIMA IMMAGINE). L’equivoco, mio  e di chi ha ricollocato il trave del focolare è ripreso anche dal Ceccarelli che infatti descrive l’impresa in questione come una “granata ROVESCIATA esplodente” (p. 56, maiuscolo mio), quando invece di rovesciato non c’è nulla.















martedì 11 novembre 2014

LE “IMPRESE” NEL PALAZZO DUCALE DI URBINO
Quella che “andrà in onda” nei Quaderni (e nel Caffè Araldico, la versione "gruppo facebook" di questo blog), da oggi e nelle prossime settimane, è una rassegna delle imprese di Federico da Montefeltro, non tutte, ma solo quelle che ho immortalato. Essa è il frutto, oltre che, ovviamente, della mia escursione estiva in quel di Urbino e della conseguente visita al Palazzo Ducale, anche di quattro mesi di letture, atto dovuto per vedere di mitigare un po’ la mia ignoranza e fornire dati se non professionali almeno accettabili. Come già detto tempo fa invito (oltre-ovviamente- tutti gli altri) se avrà la bontà di passare di qua, Antonio Conti un vero esperto in materia, (si vedano solo a mo’ di minuscolo esempio questi link http://www.iagiforum.info/viewtopic.phphttp://www.iagiforum.info/viewtopic.php… ) a integrare, modificare, correggere ecc. tutto quanto scriverò da ora in poi sull’argomento. E’ chiaro che la mia non vuol essere pretesa di inserirmi ad alti livelli in argomenti da me così poco conosciuti. E’ solo un raccontare ciò che ho visto, nella miglior maniera possibile.
I testi utilizzati: Federico da Montefeltro di Roeck e Tömmesmann (Einaudi); L’enigma Montefeltro di M. Simonetta (Rizzoli); Non mai – le imprese araldiche dei duchi di Urbino (Accademia Raffaello, Urbino) di Luciano Ceccarelli; alcuni saggi di cui dirò man mano, tratti da Piero e Urbino (Marsilio Editore), da me consultato in Queriniana. Queste fonti, quando verranno riportati veri e propri stralci testuali, saranno citate in seguito soltanto richiamando il nome dell’autore/autori e eventualmente il numero di pagina.
La cadenza delle mie pubblicazioni dovrebbe variare da un minimo di tre giorni ad un massimo di sette. Quelle già pronte (salvo l’adattamento a f.book e al blog, con riferimenti alle immagini, ecc.) sono sedici, ma potrebbero diventare ben di più allargando il raggio d’azione al di fuori delle “imprese”, tempo, salute e imprevisti permettendo.
Ma iniziamo dall’inizio tentando una DEFINIZIONE DI IMPRESA: Essa può definirsi una raffigurazione simbolica di carattere para-araldico. Si compone di due parti, l'anima (talvolta assente) ed il corpo: la prima è una frase, una sigla, un motto o anche una sola parola che accompagna e letteralmente dà vita al secondo, un disegno più o meno articolato e complesso, normalmente composto da pochissime figure di base. Può alludere ad un fatto, una vicenda, una speranza, un desiderio, un pensiero, un'aspirazione, un ideale del titolare. Tradizionalmente, l'impresa ideale dispone di cinque requisiti fondamentali (è il Giovio che parla, mediante il suo Ragionamento […] sopra motti e disegni d’arme… ecc. (Venezia, 1556):
 1) aver giusta proporzione fra anima e corpo: il testo non prevalga sulla figura, né viceversa;
 2) non essere troppo oscura, ma nemmeno tanto chiara da farsi intendere da chiunque;
 3) essere bella a vedersi, cioè graficamente ingegnosa e non astrusamente disordinata;
 4) mostrare figure non umane, ma comunque di aspetto decente e chiaro, realistico e intellegibile, non ripugnanti né mostruose;
 5) avere un'anima scritta in lingua diversa da quella del titolare (per meglio coprirne il sentimento), meglio in latino o una sua derivazione, di buon suono e magari con un elegante gioco di parole, e che sia sufficientemente breve ma non ambigua.
 Siccome la mia esposizione non sarà in ordine cronologico, non sarà inutile, forse, avere sottomano l’elenco dei duchi di Urbino, reperibile comodamente in rete.
 Assai succintamente ricordo qui i nomi: Oddantonio, Federico III, Guidobaldo I con la parentesi di Cesare Borgia e poi ancora Guidobaldo I (dinastia Montefeltro). Francesco Maria I; la parentesi di Lorenzo de’ Medici; poi ancora Francesco Maria I, Guidobaldo II, Francesco Maria II(sesto e ultimo duca di Urbino. Suo figlio Federico Ubaldo fu principe ereditario ma morì prima della morte del padre) (dinastia Della Rovere).
 A presto per il secondo post.