PELIZZARI-VINGI: AGGIORNAMENTO-SECONDA E ULTIMA PARTE: LA QUESTIONE DEL TERMINE "VINGI": SOPRANNOME FAMILIARE O PERSONALE?
Vi è poi da risolvere la questione, ben più importante e assai più interessante dal punto di vista araldico e di cultura generale: Il termine “Vingi”, può essere considerato un soprannome familiare storico, al pari di tantissimi altri che sin dalle prime registrazioni cinquecentesche compaiono puntualmente (se non con precisione matematica) negli atti di nascita, matrimonio e morte di centinaia di soggetti e che, in alcuni casi, sono tuttora perduranti a livello di trasmissione orale? Credevamo di sì, ma se dovessimo basarci su quanto ritrovato (o meglio: non ritrovato) durante le nostre ricerche, dovremmo ora rispondere di no. Il termine in questione, infatti, si ritrova, con nostra grande sorpresa, soltanto in due atti di morte di altrettanti cugini, morti a distanza di due giorni, nei primi anni del Novecento. E poi il nulla, né dopo, né nei quasi cinquecento anni di atti precedenti, consultabili nell’anagrafe parrocchiale. E questo, ribadiamo, mentre altri soprannomi familiari danno traccia di sé costantemente in tutto questo enorme lasso di tempo. Ci verrebbe da concludere come “Vingi” non fosse, almeno in origine, che un soprannome personale dei due cugini summenzionati, introdotto quindi soltanto in tempi relativamente recenti. Il fatto poi che esso compaia (“suddiviso” in “Vingio de sura”, in un caso, e “Vingio de sot” in un altro) soltanto nell’atto di morte dei due soggetti, potrebbe avvalorare l’ipotesi di nomignolo personale “ereditato” durante la loro vita, e quindi inesistente all’epoca della loro nascita e, stando agli atti cartacei, anche a quella dei rispettivi matrimoni (o se già esistente in questo secondo caso, ritenuto irrilevante, al contrario dei soprannomi familiari sempre considerati importantissimi e per questo quasi costantemente specificati). Ulteriore conferma potrebbe venire dal fatto che in una delle due registrazioni di morte, quella della persona denominata “Vingio de sot”, compaia tra parentesi anche un altro “soprannome”, vale a dire “Zanì”. Ma se è pur vero che tale secondo soprannome si ritrova spesso in altre registrazioni come soprannome familiare, va anche aggiunto come esso riguardi il cognome Rizzardi, non presente nel ramo ascendente del soggetto, e non Pelizzari, e che quindi in questo caso potrebbe essere stato utilizzato come ulteriore soprannome personale (o riferentesi magari all’ascendenza materna: i Laffranchi di Bione). In aggiunta e conclusione si potrà poi annotare come sia curioso che “Vingio”, sdoppiato in “de Sura” e “de Sot”, riguardi sì due cugini (e come detto, nessun avo o discendente di questi), morti praticamente nello stesso momento, ma non sia mai abbinato ad un fratello di uno dei due (esattamente di quello soprannominato “Vingio de Sura”), nato nove anni prima e deceduto tredici anni dopo di lui e di cui abbiamo seguito la linea discendente, né ancora (almeno negli atti di nascita) ad alcuno dei restanti otto fratelli.
Questo il quadro che si può trarre dall’esame degli atti presenti nell’archivio storico parrocchiale di Idro. Naturalmente, spuntasse fuori altra documentazione, magari più antica, che attestasse come “Vingi” fosse un epiteto utilizzato in maniera diffusa in atti riferentesi a persone diverse, si dovrebbe ammettere che tale termine fosse utilizzato per identificare un intero ramo familiare. In fondo, tale evenienza sarebbe la più logica da supporre, stante la persistente e a noi contemporanea memoria “orale” del termine e la presenza massiccia di antenati dei due “Vingi” recanti il nome di Virgilio/Virginio (uno di essi era pure il padre/zio dei due cugini di cui qui si è trattato), se si voglia ammettere per un attimo la dipendenza del nomignolo da tale nome di battesimo*. In questo caso quindi, le nostre considerazioni dovrebbero essere cassate ed essere ritenute non valide nelle conclusioni. Ma rimarrebbero come “spia” di una pratica –quella cioè della puntuale registrazione nelle trascrizioni anagrafiche da fine Cinquecento sino quasi ai nostri giorni, dei soprannomi familiari- che in questo caso sarebbe stata sistematicamente disattesa con motivazioni per noi del tutto inspiegabili e sconosciute, nonché in piena controtendenza con l’uso generale.
*Segnaliamo la presenza in Idro, per breve periodo, del cognome Vengien/Vangien. Poiché è comprovato che esso nulla abbia a che fare con quello dei Pelizzari, l’accostamento Vengien/Vingi andrebbe ben oltre l’azzardo e sviscerare ipotesi che potessero in qualche modo giustificarlo, sarebbe esercizio del tutto gratuito e privo di fondamento scientifico.
Nelle foto: i documenti genealogici da me approntati al termine della ricerca di archivio effettuata da Marzo a Maggio 2014. (in uno di essi, in verde, si può intravvedere la scritta Vingio de sura e Vingio de sot, riferita ai due cugini (e solo a loro) di cui si parla nel testo.
lunedì 12 maggio 2014
venerdì 9 maggio 2014
AGGGIORNAMENTO SULL'ARGOMENTO PELIZZARI-VINGI (SI VEDA IL PRIMO POST DI SETTEMBRE 2013).
PRIMA PARTE: UN DOCUMENTO RECENTE RITROVATO IN ARCHIVIO PARROCCHIALE: "L'AVA MATERNA"
Nota: tanto questa come la seconda sezione (che tratterà del problema -per me più interessante-che suscita il termine "Vingi" ) costituiscono in pratica una parte dell'appendice del mio libro sullo stemma civico di Idro "Ne la quarta de Sancto Michele". Riconosco che questo e il prossimo post costituiscono uno scivolamento nel campo della genealogia ma è scivolone che commetto soltanto in quanto si parla dell'unica famiglia idrense di cui si conosca lo stemma storico.
Abbiamo visto in Settembre cosa dice il Della Corte nel suo "Armerista",
ma qualcosa di più importante possiamo aggiungere riguardo a questa famiglia, grazie ad un nostro ritrovamento in archivio parrocchiale. All’interno di un faldone rinvenivamo infatti una fotocopia de “I discorsi di Pio IX al patriziato e alla nobiltà romana nei mesi successivi alla presa di Roma”, un breve saggio a firma Guglielmo de’ Giovanni di Precacore che occupa le pagine dalla 33 alla 39 di un periodico che ci sarebbe rimasto sconosciuto se un riquadro posto alla fine del testo non fosse accorso in nostro aiuto: si trattava di un numero risalente al 1978 (non se ne poteva dedurre il mese esatto) della Rivista Araldica. Le sette pagine, zeppe di sottolineature, inneggiano al sodalizio istituitosi tra la nobiltà romana ed il pontefice contro i Piemontesi ai tempi della breccia di Porta Pia, ma ciò che veramente interessa a noi sono le note manoscritte presenti nelle prime tre. Da esse si evince come i Pelizzari alias Vingi fossero «Conti di Castel d’Idro e del S. R. I., Patrizi Veneti, Cav. d’Onore e di devozione del S. M. O. di Malta e di Grazia e Giustizia del S. M. O. Angelico Costantiniano di San Giorgio, eletto a Ente Morale dal Capo dello Stato nel 1973.». Detti «cavalierati di Malta e di San Giorgio sono stati ereditati dall’Ava Materna donna Maria-Adelaide-Amalia-Sofia dei Pelizzari e l’autorizzazione è stata data con rescritto del 26 ottobre 1947 da S. M. Vittorio Emanuele III che ha conservato la Regia Prerogativa sull’art. 79 del Regno, essendosi il Governo Repubblicano disinteressato di Materia Araldica, limitandosi a non riconoscere i titoli nobiliari ed ad autorizzare la cognomizzazione dei predicati.». Ai meno esperti gioverà sapere che S. M. O. sta per “Sovrano Militare Ordine” nel caso di “Malta” e “Sacro Militare Ordine” in quello di “San Giorgio”; nonché che S. R. I. sta per “Sacro Romano Impero”; e anche come per “predicato nobiliare” si intenda quell’attributo (località geografica anche non reale, come potrebbe essere il “Castel d’Idro” appena incontrato, una carica, ecc.) che si può aggiungere ad un titolo nobiliare o a un cognome, introdotto dalla preposizione “di” o “de”. La “cognomizzazione” di tale “predicato” è prevista dalle già incontrate disposizioni transitorie e finali della Costituzione, nell’art. XIV (comma 2) nelle quali si enuncia appunto come i predicati dei tioli nobiliari esistenti prima del 28 Ottobre 1922 valgono come parte del nome.
Le aggiunte a penna non sono firmate, ma non abbiamo difficoltà a riconoscerne l’autore, scomparso da tempo, e non solo perché nella stessa cartella abbiamo ritrovato ulteriori suoi scritti (di tutt’altro contenuto) da lui sottoscritti, ma soprattutto in quanto del medesimo riconosciamo lo stile, ne ricordiamo la cultura, la grande preparazione in questo e altri ambiti, la sua dedizione allo studio; sappiamo per sua antica ammissione come egli fosse un discendente dei Pelizzari (e il riferimento all’”ava materna” in queste righe è indicativo) e infine ricordiamo perfettamente quando, ancora in vita, tenne una lezione sull’argomento, in occasione di una sua supplenza (era insegnante di lettere). Non siamo esperti di diritto nobiliare per cui non entriamo nel merito delle note da lui vergate, dell’attuale validità o meno di quanto scritto, né vogliamo prendere una parte. Semplicemente riferiamo quanto da noi ritrovato, ricordando che, se non andiamo errati, i gradi di Cavaliere (in realtà di “Dama”, visto che la titolare era una donna) di Giustizia (per “San Giorgio”) e di Onore e Devozione (per “Malta”) richiedono prove di nobiltà. Poniamo qui, tra l’altro, il dubbio se essi siano trasmissibili, soprattutto per linea femminile, o se non siano piuttosto titoli del tutto personali. Aggiungiamo solo che l’”Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano riporta soltanto i Pelizzari Conti di Meduna, che crediamo nulla abbiano a che fare con gli omonimi idrensi, ma anche questo di per sé non è un dato dirimente: pare siano numerosi i casi di famiglie titolate non presenti in tale elenco e altrettanto numerosi i motivi di tali lacune* Ma certo è che una nostra approfondita ricerca genealogica condotta in archivio parrocchiale non ci ha restituito alcuna Maria Adelaide Amalia Sofia, nel ramo materno diretto dell’autore dello scritto. Semmai è presente eccome una Maria, ma per l’appunto una “Maria” tout court e nient’altro, e questo accade sia nel suo atto di nascita, che in quello di matrimonio e di morte, nonché nelle citazioni del nome presenti nelle registrazioni riguardanti i suoi discendenti. Ricordiamo inoltre, a tal fine, che i doppi –e talvolta anche tripli- nomi erano riportati, sin dall’epoca delle prime annotazioni, in maniera precisa e puntigliosa. Tale nome composito tra l’altro, non ricorre nemmeno in alcuna registrazione di rami collaterali (e non diretti) del soggetto né, crediamo di poter dire, in alcuna registrazione anagrafica storica presente nell’archivio idrense. (Nella foto le note scritte a penna, da me ritrovate in archivio da cui ho tratto questa prima parte).
*: Per una rapida disamina sulla questione, chi vorrà potrà trovare numerose discussioni anche in rete (un esempio in tal senso può essere dato da http://www.iagiforum.info /viewtopic.php?f=7&t=5156).
PRIMA PARTE: UN DOCUMENTO RECENTE RITROVATO IN ARCHIVIO PARROCCHIALE: "L'AVA MATERNA"
Nota: tanto questa come la seconda sezione (che tratterà del problema -per me più interessante-che suscita il termine "Vingi" ) costituiscono in pratica una parte dell'appendice del mio libro sullo stemma civico di Idro "Ne la quarta de Sancto Michele". Riconosco che questo e il prossimo post costituiscono uno scivolamento nel campo della genealogia ma è scivolone che commetto soltanto in quanto si parla dell'unica famiglia idrense di cui si conosca lo stemma storico.
Abbiamo visto in Settembre cosa dice il Della Corte nel suo "Armerista",
ma qualcosa di più importante possiamo aggiungere riguardo a questa famiglia, grazie ad un nostro ritrovamento in archivio parrocchiale. All’interno di un faldone rinvenivamo infatti una fotocopia de “I discorsi di Pio IX al patriziato e alla nobiltà romana nei mesi successivi alla presa di Roma”, un breve saggio a firma Guglielmo de’ Giovanni di Precacore che occupa le pagine dalla 33 alla 39 di un periodico che ci sarebbe rimasto sconosciuto se un riquadro posto alla fine del testo non fosse accorso in nostro aiuto: si trattava di un numero risalente al 1978 (non se ne poteva dedurre il mese esatto) della Rivista Araldica. Le sette pagine, zeppe di sottolineature, inneggiano al sodalizio istituitosi tra la nobiltà romana ed il pontefice contro i Piemontesi ai tempi della breccia di Porta Pia, ma ciò che veramente interessa a noi sono le note manoscritte presenti nelle prime tre. Da esse si evince come i Pelizzari alias Vingi fossero «Conti di Castel d’Idro e del S. R. I., Patrizi Veneti, Cav. d’Onore e di devozione del S. M. O. di Malta e di Grazia e Giustizia del S. M. O. Angelico Costantiniano di San Giorgio, eletto a Ente Morale dal Capo dello Stato nel 1973.». Detti «cavalierati di Malta e di San Giorgio sono stati ereditati dall’Ava Materna donna Maria-Adelaide-Amalia-Sofia dei Pelizzari e l’autorizzazione è stata data con rescritto del 26 ottobre 1947 da S. M. Vittorio Emanuele III che ha conservato la Regia Prerogativa sull’art. 79 del Regno, essendosi il Governo Repubblicano disinteressato di Materia Araldica, limitandosi a non riconoscere i titoli nobiliari ed ad autorizzare la cognomizzazione dei predicati.». Ai meno esperti gioverà sapere che S. M. O. sta per “Sovrano Militare Ordine” nel caso di “Malta” e “Sacro Militare Ordine” in quello di “San Giorgio”; nonché che S. R. I. sta per “Sacro Romano Impero”; e anche come per “predicato nobiliare” si intenda quell’attributo (località geografica anche non reale, come potrebbe essere il “Castel d’Idro” appena incontrato, una carica, ecc.) che si può aggiungere ad un titolo nobiliare o a un cognome, introdotto dalla preposizione “di” o “de”. La “cognomizzazione” di tale “predicato” è prevista dalle già incontrate disposizioni transitorie e finali della Costituzione, nell’art. XIV (comma 2) nelle quali si enuncia appunto come i predicati dei tioli nobiliari esistenti prima del 28 Ottobre 1922 valgono come parte del nome.
Le aggiunte a penna non sono firmate, ma non abbiamo difficoltà a riconoscerne l’autore, scomparso da tempo, e non solo perché nella stessa cartella abbiamo ritrovato ulteriori suoi scritti (di tutt’altro contenuto) da lui sottoscritti, ma soprattutto in quanto del medesimo riconosciamo lo stile, ne ricordiamo la cultura, la grande preparazione in questo e altri ambiti, la sua dedizione allo studio; sappiamo per sua antica ammissione come egli fosse un discendente dei Pelizzari (e il riferimento all’”ava materna” in queste righe è indicativo) e infine ricordiamo perfettamente quando, ancora in vita, tenne una lezione sull’argomento, in occasione di una sua supplenza (era insegnante di lettere). Non siamo esperti di diritto nobiliare per cui non entriamo nel merito delle note da lui vergate, dell’attuale validità o meno di quanto scritto, né vogliamo prendere una parte. Semplicemente riferiamo quanto da noi ritrovato, ricordando che, se non andiamo errati, i gradi di Cavaliere (in realtà di “Dama”, visto che la titolare era una donna) di Giustizia (per “San Giorgio”) e di Onore e Devozione (per “Malta”) richiedono prove di nobiltà. Poniamo qui, tra l’altro, il dubbio se essi siano trasmissibili, soprattutto per linea femminile, o se non siano piuttosto titoli del tutto personali. Aggiungiamo solo che l’”Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano riporta soltanto i Pelizzari Conti di Meduna, che crediamo nulla abbiano a che fare con gli omonimi idrensi, ma anche questo di per sé non è un dato dirimente: pare siano numerosi i casi di famiglie titolate non presenti in tale elenco e altrettanto numerosi i motivi di tali lacune* Ma certo è che una nostra approfondita ricerca genealogica condotta in archivio parrocchiale non ci ha restituito alcuna Maria Adelaide Amalia Sofia, nel ramo materno diretto dell’autore dello scritto. Semmai è presente eccome una Maria, ma per l’appunto una “Maria” tout court e nient’altro, e questo accade sia nel suo atto di nascita, che in quello di matrimonio e di morte, nonché nelle citazioni del nome presenti nelle registrazioni riguardanti i suoi discendenti. Ricordiamo inoltre, a tal fine, che i doppi –e talvolta anche tripli- nomi erano riportati, sin dall’epoca delle prime annotazioni, in maniera precisa e puntigliosa. Tale nome composito tra l’altro, non ricorre nemmeno in alcuna registrazione di rami collaterali (e non diretti) del soggetto né, crediamo di poter dire, in alcuna registrazione anagrafica storica presente nell’archivio idrense. (Nella foto le note scritte a penna, da me ritrovate in archivio da cui ho tratto questa prima parte).
*: Per una rapida disamina sulla questione, chi vorrà potrà trovare numerose discussioni anche in rete (un esempio in tal senso può essere dato da http://www.iagiforum.info /viewtopic.php?f=7&t=5156).
martedì 29 aprile 2014
SONCINO, ROCCA. STEMMA E IMPRESE VISCONTEO-SFORZESCHE NELLA "TORRE-CAPPELLA". (Foto del 25 aprile 2014)
Oltre allo stemma sono visibili alcune imprese visconteo-sforzesche: i tizzoni ardenti con funi e secchi, che il Codice Cremosano vuole come “sottratta”, in virtù di una vittoria in duello, da Galeazzo II Visconti (seconda metà XIV sec.) al Connestabile di Borbone, e il “veltro” tenuto al guinzaglio da mano divina accosciato sotto un albero (pino, nespolo o sorbo), utilizzata da Francesco Sforza (IV Duca di Milano 1452-1467). A timbrare lo stemma , l’impresa dei “Piumai, cioè ramoscelli di palma e ulivo accollati da una corona ducale, attribuita a Filippo Maria Visconti (1412-1447 III Duca di Milano) che la ebbe in dono da Alfonso d’Aragona , anche se i ramoscelli intrecciati nella corona medesima erano apparsi già ai tempi di Giangaleazzo Visconti (I Duca di Milano). Insomma un bel compendio di imprese visconteo-sforzesche. Quanto all’epoca della loro esecuzione non conosco date certe. Leggo che l’attuazione del progetto della nuova rocca (voluta da Galeazzo Maria Sforza V Duca di Milano nel 1469) fu iniziata nel 1473, e che la chiusura della torre Sud-Est e la conseguente trasformazione in Cappella fu voluta dalla famiglia marchionale degli Stampa (infeudati dal 1536). A ciò si aggiunga che a me pare di scorgere un leone di San Marco (ma potrei sbagliare) come “sottostante” (e potrei risbagliare) alle imprese visconteo-sforzesche : Venezia ebbe il possesso della rocca dal 1499 al 1509, rocca che poi passò ai francesi (immagino nei tre anni residui di Luigi XII come duca di Milano) e successivamente di nuovo agli Sforza, ritengo con Massimiliano e poi Francesco II (che morì nel 1535, data che coincide con il successivo infeudamento della rocca agli Stampa). Naturalmente tutte queste ipotesi di datazione da storico improvvisato potranno essere spazzate via (e ben volentieri mi auguro che accada) da qualcuno che abbia dati ( o meglio: date) certe sull’esecuzione degli affreschi. Io avevo solo intenzione di condividere con voi queste meravigliose testimonianze araldiche.
Resta da dire per chi volesse saperlo, che l’impresa non è da confondere con lo stemma. Essa è una raffigurazione simbolica di carattere para-araldico composta da “anima” e “corpo” (rispettivamente: frase, parola, motto e raffigurazione vera e propria che “spiega” o forse, meglio, “viene spiegata” dalla prima). L’impresa è completamente slegata dai vincoli propri dell’araldica (scudo, geometrie, ecc. ecc.) ed è una vera e propria opera d’arte. Essa nei confronti dello stemma di famiglia (vincolante per moltissimi aspetti, sia compositivi che giuridici) è strettamente personale e assai più allusiva e allegorica rispetto alla vita (o ad un episodio di essa, ma anche ad un concetto astratto, ecc.) di chi la assume. Anzi io aggiungo che molto spesso questa tipica caratteristica delle imprese ha portato ad interpretare anche gli stemmi stessi con una “fissità” di interpretazioni allegoriche che ad essi non competono, che sono quasi sempre fuorvianti ed in taluni casi risibili. Con ciò non voglio dire che non sia lecito, stimolante e storicamente importantissimo ricercare (quando possibile) il “perché” di un inserimento in uno scudo di un tale o talaltro emblema; verificarne la sua ascendenza storica o storico-artistica; nonché ipotizzare o certificare come tale “perché” sia stato già in origine cosciente e voluto anziché “casuale” (può mai essere casuale una scelta di un emblema, mi chiedo?), e che esso possa quindi portarci ben oltre alla mera descrizione iconografica dell’emblema stesso; ma soltanto che da qui a sostenere che una figura X o Y, o un accostamento di colori Z “vogliano invariabilmente significare” il concetto A, la virtù B o l’attitudine C ce ne corre. E ce ne corre perché la prima opzione è “ricerca”, mentre la seconda è una totale sciocchezza.
Oltre allo stemma sono visibili alcune imprese visconteo-sforzesche: i tizzoni ardenti con funi e secchi, che il Codice Cremosano vuole come “sottratta”, in virtù di una vittoria in duello, da Galeazzo II Visconti (seconda metà XIV sec.) al Connestabile di Borbone, e il “veltro” tenuto al guinzaglio da mano divina accosciato sotto un albero (pino, nespolo o sorbo), utilizzata da Francesco Sforza (IV Duca di Milano 1452-1467). A timbrare lo stemma , l’impresa dei “Piumai, cioè ramoscelli di palma e ulivo accollati da una corona ducale, attribuita a Filippo Maria Visconti (1412-1447 III Duca di Milano) che la ebbe in dono da Alfonso d’Aragona , anche se i ramoscelli intrecciati nella corona medesima erano apparsi già ai tempi di Giangaleazzo Visconti (I Duca di Milano). Insomma un bel compendio di imprese visconteo-sforzesche. Quanto all’epoca della loro esecuzione non conosco date certe. Leggo che l’attuazione del progetto della nuova rocca (voluta da Galeazzo Maria Sforza V Duca di Milano nel 1469) fu iniziata nel 1473, e che la chiusura della torre Sud-Est e la conseguente trasformazione in Cappella fu voluta dalla famiglia marchionale degli Stampa (infeudati dal 1536). A ciò si aggiunga che a me pare di scorgere un leone di San Marco (ma potrei sbagliare) come “sottostante” (e potrei risbagliare) alle imprese visconteo-sforzesche : Venezia ebbe il possesso della rocca dal 1499 al 1509, rocca che poi passò ai francesi (immagino nei tre anni residui di Luigi XII come duca di Milano) e successivamente di nuovo agli Sforza, ritengo con Massimiliano e poi Francesco II (che morì nel 1535, data che coincide con il successivo infeudamento della rocca agli Stampa). Naturalmente tutte queste ipotesi di datazione da storico improvvisato potranno essere spazzate via (e ben volentieri mi auguro che accada) da qualcuno che abbia dati ( o meglio: date) certe sull’esecuzione degli affreschi. Io avevo solo intenzione di condividere con voi queste meravigliose testimonianze araldiche.
Resta da dire per chi volesse saperlo, che l’impresa non è da confondere con lo stemma. Essa è una raffigurazione simbolica di carattere para-araldico composta da “anima” e “corpo” (rispettivamente: frase, parola, motto e raffigurazione vera e propria che “spiega” o forse, meglio, “viene spiegata” dalla prima). L’impresa è completamente slegata dai vincoli propri dell’araldica (scudo, geometrie, ecc. ecc.) ed è una vera e propria opera d’arte. Essa nei confronti dello stemma di famiglia (vincolante per moltissimi aspetti, sia compositivi che giuridici) è strettamente personale e assai più allusiva e allegorica rispetto alla vita (o ad un episodio di essa, ma anche ad un concetto astratto, ecc.) di chi la assume. Anzi io aggiungo che molto spesso questa tipica caratteristica delle imprese ha portato ad interpretare anche gli stemmi stessi con una “fissità” di interpretazioni allegoriche che ad essi non competono, che sono quasi sempre fuorvianti ed in taluni casi risibili. Con ciò non voglio dire che non sia lecito, stimolante e storicamente importantissimo ricercare (quando possibile) il “perché” di un inserimento in uno scudo di un tale o talaltro emblema; verificarne la sua ascendenza storica o storico-artistica; nonché ipotizzare o certificare come tale “perché” sia stato già in origine cosciente e voluto anziché “casuale” (può mai essere casuale una scelta di un emblema, mi chiedo?), e che esso possa quindi portarci ben oltre alla mera descrizione iconografica dell’emblema stesso; ma soltanto che da qui a sostenere che una figura X o Y, o un accostamento di colori Z “vogliano invariabilmente significare” il concetto A, la virtù B o l’attitudine C ce ne corre. E ce ne corre perché la prima opzione è “ricerca”, mentre la seconda è una totale sciocchezza.
martedì 15 aprile 2014
Cinque giorni fa una vocina mi ha detto di non fare la solita strada per tornare da Esenta a Lonato, ma di seguire quella più a monte che passa da San Polo. Da lontano ho pensato non potesse esserci granché, a parte la bellezza della strada stessa, in quanto mi pareva di scorgere solo case moderne. E invece ecco qua. Non so di chi sia lo stemma e chiedo aiuto a chi eventualmente lo riconoscesse [l'ulivo, se è tale, potrebbe richiamare gli Olivari, se fosse comprovata la loro presenza in zona, ma rispetto a quanto è rappresentato nel Della Corte mancherebbe il terrazzo erboso e diminuito ed invece sarebbe presente in più il pennuto sostenuto dalla fascia alzata diminuita e centrata (il tutto potrebbe essere anche un capo centrato). Insomma non credo ci siamo...]. Lo stemma risale al 1860.
venerdì 11 aprile 2014
POST DEL 31 12 2013
Segnalo un aggiunta di foto (stemma Federici in Cecino Bs) al post del 31 Dicembre 2013 scorso.
venerdì 28 marzo 2014
BERGAMO. SCOTTI?
Tanto per ribadire che sono gli stemmi che ti trovano e non viceversa...ecco qua cosa fotografava mia moglie (ebbene sì... sono un uomo orribile) in Bergamo, credo nello stesso momento in cui Tiziana Pompili Casanova fotografava (o quanto meno postava qui) lo stemma Scotti di Vigoleno (post del 18 Marzo 2014). L"inversione" da banda a sbarra non lo reputo un problema: in realtà tanti di questi "problemi" sono tali solo per noi moderni... tipo mettersi a contare il numero di p...unte di una corona, o altre amenità del genere. Comunque, tanto per essere pignoli, come si potrà osservare, oltre a quella in banda, anche lo stemmario da me consultato prevede un'arma con la sbarra. Esso tra l'altro restituisce sempre una sbarra/banda d'oro, ma in questa pagina: http://blasonariopiemontese.xoom.it//blasonpiemon/Pagina8a.html
si potrà notare la versione corretta, o quanto meno corrispondente alla "mia", cioè quella con la pezza d'argento. Oh...poi se non fosse "Scotti", parlate eh...
Lo stemma dipinto è tratto da Stemmi delle Famiglie Bergamasche di Cesare de Gherardi Camozzi Vertova, S.E.S.A.A.B., 1994 Bergamo.Altro...
si potrà notare la versione corretta, o quanto meno corrispondente alla "mia", cioè quella con la pezza d'argento. Oh...poi se non fosse "Scotti", parlate eh...
Lo stemma dipinto è tratto da Stemmi delle Famiglie Bergamasche di Cesare de Gherardi Camozzi Vertova, S.E.S.A.A.B., 1994 Bergamo.Altro...
lunedì 10 marzo 2014
L'AMICO BISTRATTATO: IL BLASONE.
Chiedo scusa preventivamente per ripetizioni o passaggi oscuri ma scrivo di getto, per una volta.
Se voi faceste parte di un gruppo, pagina, forum, quel che volete, che trattasse di storia dell'arte, non storcereste il naso se il relativo linguaggio tecnico fosse utilizzato in maniera pesantemente approssimativa, del tutto errata; con noncuranza della cosa come se l'uso appropriato del linguaggio medesimo fosse fenomeno del tutto trascurabile o inutile? Io penso di sì. Invece con il blasone si può fare ciò che si vuole e se qualcuno tenta una miglioria di una descrizione di stemma altrui, scatta l'offesa insanabile (permalosetti molti araldisti o araldofili, non trovate?). Badate (e chi mi conosce non può nutrire dubbi su questo),non si tratta della sindrome da primo della classe (!!!! nel mio caso quanto mai inappropriata, visto che semmai sono l'ultima ruota) o della maestrina con la matita rossa e blu, è solo che vedo sempre più un comportamento del tipo: vabbè guarda che bella foto che ti posto e non rompere che il blasone non è importante, e quindi se me ne snoccioli uno migliore sei solo un maniaco che meglio non ha da fare. E così per paura dell'"offesa insanabile" mi debbo sorbire (è esempio di pochi minuti fa, in altra sede) "un leone addestrato" (addestrato da cosa?!?!?!) solo per dire che è un leone rivolto verso destra araldica (e quindi un semplice "leone e basta") o scambi tra vaiati a onde (sic) anziché nebulosi minuti o ancora figure "dall'uno all'altro" che diventano dell'uno nell'altro", ecc. ecc. Io ritengo che questo comportamento di chiusura verso un dibattito sul blasone sia sbagliato e vi assicuro che di correzioni anche pesanti, ai blasoni che tento ne "subisco" tutti i giorni, eppure la mia permalosità cede sotto i colpi della convinzione che io stia imparando qualcosa di importante, assolutamente indispensabile per il fenomeno araldico e non una sua appendice inutile e fastidiosa.
Chiedo scusa preventivamente per ripetizioni o passaggi oscuri ma scrivo di getto, per una volta.
Se voi faceste parte di un gruppo, pagina, forum, quel che volete, che trattasse di storia dell'arte, non storcereste il naso se il relativo linguaggio tecnico fosse utilizzato in maniera pesantemente approssimativa, del tutto errata; con noncuranza della cosa come se l'uso appropriato del linguaggio medesimo fosse fenomeno del tutto trascurabile o inutile? Io penso di sì. Invece con il blasone si può fare ciò che si vuole e se qualcuno tenta una miglioria di una descrizione di stemma altrui, scatta l'offesa insanabile (permalosetti molti araldisti o araldofili, non trovate?). Badate (e chi mi conosce non può nutrire dubbi su questo),non si tratta della sindrome da primo della classe (!!!! nel mio caso quanto mai inappropriata, visto che semmai sono l'ultima ruota) o della maestrina con la matita rossa e blu, è solo che vedo sempre più un comportamento del tipo: vabbè guarda che bella foto che ti posto e non rompere che il blasone non è importante, e quindi se me ne snoccioli uno migliore sei solo un maniaco che meglio non ha da fare. E così per paura dell'"offesa insanabile" mi debbo sorbire (è esempio di pochi minuti fa, in altra sede) "un leone addestrato" (addestrato da cosa?!?!?!) solo per dire che è un leone rivolto verso destra araldica (e quindi un semplice "leone e basta") o scambi tra vaiati a onde (sic) anziché nebulosi minuti o ancora figure "dall'uno all'altro" che diventano dell'uno nell'altro", ecc. ecc. Io ritengo che questo comportamento di chiusura verso un dibattito sul blasone sia sbagliato e vi assicuro che di correzioni anche pesanti, ai blasoni che tento ne "subisco" tutti i giorni, eppure la mia permalosità cede sotto i colpi della convinzione che io stia imparando qualcosa di importante, assolutamente indispensabile per il fenomeno araldico e non una sua appendice inutile e fastidiosa.
Iscriviti a:
Post (Atom)