domenica 3 novembre 2013

ARALDICA E DIALETTO PARTE 1 e PARTE 2
Un argomento che mi affascina un bel po’, anche se ovviamente so solo darne accenni. Generalmente si è tutti concordi nel considerare la perdita del dialetto come perdita di un patrimonio culturale inestimabile e non sostituibile. Non è una frase fatta: come uno stemma irrimediabilmente rovinato dagli agenti atmosferici, dallo smog, dal tempo, non può più dirci nulla, in ambito di ricerca storica, delle analogie, dei particolari rivelatori, degli agganci, che al contrario avrebbero potuto palesarsi agli occhi dello studioso, se quest’ultimo fosse arrivato in tempo, così ogni volta che una parola dialettale viene pronunciata per l’ultima volta, si trascina via la sua storia, la sua origine, la sua derivazione e le sue “prove” storiche di una certa influenza, straniera, di una certa evoluzione linguistica e mille altre cose. Oggi anche chi, come me, parla dialetto, parla, tranne che in rari casi, una sorta di italiano ritradotto. Falegnàm, forchèta, pisèli, (sì, anche questo ho sentito), malinconia (tale e quale all’italiano, ma usata all’interno di frasi in dialetto) non sono certo il maringù, il perù, i roaiòcc e la belegòrnia, che solo quando ero piccolo io erano termini d’uso comune. Per non parlare dell’intero patrimonio di termini tecnici, faunistici ed afferenti ad altro che la morte del mondo rurale si è portata via. 
Credo che tra i tesori che il dialetto morente stia trascinando con sé nella tomba ci possa essere una buona fetta della completa comprensione di alcuni (molti? pochi? non lo so dire, io) stemmi. Tempo fa in un forum dedicato, ci si interrogò a lungo (e a me capitò di leggere l’intera discussione) se una tal figura in uno stemma fosse, un cane (se non erro si arrivò anche al leone), un “dolce” (un animale chimerico che si trova alcune volte nell’araldica di zona veneta e –mi si dice- anche dalmata) o altro. La famiglia si chiamava Zane. Ci vollero un famoso araldista e un esperto in ambito linguistico per rivelare che un tempo la volpe era chiamata “zana” (nozione che recava poi profonde implicazioni sull’utilizzo del nome “Gianna”, “Giovanna”, ecc., ecc.) e che quindi la famiglia Zane si era scelta un’arma “parlante” del tutto comprensibile ai contemporanei, comprensibile sino ad una certa data ai compilatori di stemmari, tanto che non parve loro certo necessario specificare in qualche maniera si trattasse di una “zana” e che cosa volesse dire tal nome (cioè “volpe”, abbiamo visto), e del tutto incomprensibile alle persone comuni di epoche successive. Ovviamente tale incomprensione ha portato (o comunque può sempre portare) ad una “spersonalizzazione” della figura araldica implicata. Se so che sto rappresentando una volpe, agirò in un certo modo; se non so quale animale stia riproducendo, o se ipotizzo sia un cane, mi comporterò diversamente, e il compilatore successivo che eventualmente tragga spunto dalla mia opera, non farà che copiare ciò che io ho creduto fosse corretto, perpetrando e rendendo perpetuo il fraintendimento. Un cane, quindi. Con tanti saluti alla ormai incomprensibile zana/volpe. 
Poco tempo fa la mia ignoranza araldica mi ha dato prova diretta di come tale comportamento sia facile a prodursi, e della cosa intendo raccontare.
Ma questo fa parte… della seconda parte .


ARALDICA E DIALETTO PARTE 2
I “bisanti” dei Chizzola.
Lo so non ci faccio una gran figura, ma nessuno è nato imparato ed io, nonostante la vetusta età sono ai primi passi praticamente in tutto. Un lattante di quarantotto anni. Mettetelo in premessa per ogni cosa che scrivo così voi non vi scandalizzerete ed io non dovrò più ripeterlo (ma lo ripeterò, ne sono certo).
Partiamo dall’inizio: per bisante in araldica si intende una pezza circolare di piccole dimensioni, di  metallo (quindi di smalto oro o argento, “giallo” e “bianco” in pratica) o raramente di pelliccia (vaio, ermellino). Per “torta” si intende la stessa cosa, solo smaltata di colore e non di metallo (rosso, verde, azzurro, porpora, nero). Ci sono altre pezze “intermedie” ma non è il caso di dilungarsi trattandone qui.
Quando in Erbusco mi si presentò di fronte un bello stemma dei Chizzola, sulla facciata del Palazzo un tempo di tale famiglia e ora Marchetti di Montestrutto, il blasone risultò facile pure per me: Troncato*; d’oro all’aquila al volo abbassato di nero;  di rosso a tre bisanti d’argento. (*nell’esemplare da me visto non si può parlare di capo dell’Impero, capo che, in epoca tarda, una volta smarritone il riferimento politico, diventava spesso, per l’appunto un troncato, come efficacemente chiarito anche dal Foppoli).


Soltanto dopo un po’ di tempo mi accorsi nel leggere un testo, che nella foto in esso contenuto i bisanti non erano affatto tali. Somigliavano più a focacce. Nel “Patriziato” del Della Corte (cit.) trovai infatti che esse erano chiamate “stiacciate”. Lì per lì non capii il collegamento, sino a ché lessi come in dialetto esse fossero chiamate “chizzole”. Un po’ strano, dire che in dialetto una parola fosse pronunciata in …italiano!!  Secondo me a distrarmi inizialmente è stata la leggendaria “esse” aspirata bresciana, che un noto iper-esperto che abita a pochi chilometri da me vuole essere caratteristica della parlata originaria di tutto o quasi il territorio,  caratteristica che oggi invece sopravvive relegata in qualche valle montana.
Immaginai che le focacce schiacciate in dialetto potessero essere chiamate “schisöle” (cosa poi confermata da http://www.memoriacollettivaclarense.it/storie/araldic)  con l’accento sulla o, oltre che la dieresi;  e quindi aspirando la “S” : ‘chisöle. Il passo da tale termine ai ‘Chisöla/Chizzola si fa assai più breve di prima. Se poi la focaccia sia finita nello stemma per mera assonanza al cognome già consolidato o se in qualche modo tale cognome sia da far risalire a arcaicissima professione iniziale di tale famiglia (insomma: se sia nata prima la focaccia o il cognome, o viceversa…) non mi è dato sapere.
Qui aggiungo che i Chizzola, secondo il Della Corte, sono antichissimi nobili rurali, già attestati nella Matricola Malatestiana del 1406, con capostipite un Mafeo d Chizolis “doctor e miles” già Podestà di Genova e altre città, morto nel 1318, sepolto nel chiostro di San Domenico in Brescia. Ovviamente erano patrizi originari membri del Consiglio già prima della “serrata” in senso aristocratico del 1488. Ramo di questa famiglia usò “dividere il capo”, aggiungendo a sinistra il leone di S. Marco, d’oro. Non chiarisce lo smalto del campo. Lo fa il Fè d’Ostiani nel suo “elenco storico dei patrizi di Brescia”: d’azzurro. Anche lui cita le schiacciate “volgarmente dette chizzole”.  Nel già citato http://www.memoriacollettivaclarense.it/storie/araldic si chiarisce che tale focaccia è dolce, con un piccolo buco al centro. Conoscendo questa particolarità ho voluto ingrandire la mia foto di Erbusco e in realtà sono così riuscito a notare dei microscopici forellini al centro. Inoltre, grazie a questo chiarimento si può asserire che il disegno (non colorato) contenuto nel Gelmini FVIII7 (Querianiana)sia il più corretto.



Curiosamente, nell’altro Ms Gelmini (FVIII9 Queriniana) le “chizzole” diventano assai simili a quelle da me immortalate in Erbusco, con dei forellini microscopici centrali, tanto da farmi supporre che il medesimo artista abbia tratto i suoi disegni da esemplari originali diversi (il secondo potrebbe proprio essere quello erbuschese).



Il Da Ponte dal canto suo, non si cura di stiacciate e fori e rende lo stemma con qualcosa che ricorda palle più che bisanti, data l’ombreggiatura. Ciò dimostra che anche qualcun altro oltre a me ignorasse la vera origine parlante dello stemma?


 Il Della Corte invece, vuol evidenziare che non si tratta di bisanti ma di qualcos’altro, munendo il suo disegnino di tratteggi casuali.  



NB: poiché ho notato che f.book non rispetta l’ordine di inserimento foto, la didascalia delle medesime sarà posta in un commento qui sotto, una volta che io abbia verificato l’effettiva disposizione delle foto stesse (da questo punto di vista la visione nel blog risulterà più ordinata e chiara www.bianchetti-araldica.blogspot.it).  Foto mie eseguite in Erbusco e  tratte da "Il patriziato bresciano" di A. A. Monti della Corte e dai Ms. FVIII 7-8-9 della Biblioteca Civica Queriniana http://queriniana.comune.brescia.it


nb: il particolare delle focacce dolci con foro centrale l'ho appreso durante la stesura di questo post. Prima ritenevo che le focacce in questione  potessero assomigliare più a ...una cosa così:




3 commenti:

  1. Hai scelto davvero un interessante tema, carissimo!
    Quello del rapporto fra figure araldiche "antiche" e terminologia dialettale è un campo ricchissimo di implicazioni e, soprattutto, assai utile per la nostra disciplina.
    É proprio per le sue tante connessioni interdisciplinari che l'araldica può (anzi, DEVE) essere definita scienza.
    Bravissimo tu che ne sai cogliere gli spunti.

    ps: e che sai presentarceli con arguta chiarezza: cosa rara anche per chi non è più un "lattante di 48 anni"!
    ;-)))))

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  2. Carissimo Aruspex, non so come ringraziarti delle splendide parole. Ne vado fiero perché conosco il valore eccelso della fonte da cui provengono. Grazie ancora.

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  3. Le prego di mandarmi il Suo e-mail/digital-adresse, perché le mie notizie saranno più grosse.

    Lothar.chizzola@chello.at

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