mercoledì 19 novembre 2014


URBINO- LE IMPRESE MONTEFELTRO-2):  LE FIAMMELLE (DIVISO IN 2/A E 2/B)

 L’impresa delle fiammelle è quella che senz’altro mi è apparsa come la più suggestiva, non tanto “vedendola”, ma “leggendone”. Tento di spiegare perché. DIVIDO L’ARGOMENTO IN DUE SEZIONI, LA 2/A –questa- E LA SUCCESSIVA 2/B.

 

2/A

Già Paolo del Poggetto (in Piero e Urbino, cit. p. 321) ne parla, ma egli stesso rimanda al saggio, in questo senso più completo, del Lombardi presente nella stessa opera Piero e Urbino. Il primo autore sta esaminando  l’”Alcova del Duca” (o “Lettiera” di Federico da Montefeltro)  e si imbatte pertanto nell’impresa di cui qui si parla. Rigetta da subito, come vedremo fare al Lombardi, l’idea che tali fiammelle possano rappresentare, come vorrebbe un’interpretazione tradizionale del Nardini, risalente al 1931 e poi sempre pedissequamente ripresa, “la  summa delle tre onorificenze più importanti ottenute da Federico nel ’74 (il gonfalonierato, il collare dell’Ermellino, l’ordine della Giarrettiera)”. I dubbi gli nascono sia dal fatto che le tre fiammelle sono rappresentate nell’alcova in numero di sei e non di tre, e altrove, nel palazzo, anche di nove; sia perché inquartate –sempre nell’alcova- con la sigla in lettere gotiche che tanto ha messo in difficoltà gli studiosi e che potrebbe essere dirimente per la nostra questione . Il Del Poggetto, nel 1983, l’aveva risolta in F F (Federicus Feltrius), ma nel testo da me qui citato, ci ripensa ne dà un’interpretazione più corretta e intrigante: come furono corrette da conte a duca [e quindi da F(EDERICUS) C(OMES) a F(EDERICUS) D(VX)] “le sigle nella pietra” in lettere capitali, “non è difficile pensare ad una assai più semplice correzione pittorica sul legno dell’alcova”,(nella foto 1, l’inquartato di cui si tratta, ma presente nel soffitto dello studiolo. Foto tratta da Piero e Urbino cit.) tanto più che in linea generale, aggiungo io, in grafia gotica è semplicissimo mutare la “c” minuscola in “d”, aggiungendo una semplice asta allungata sulla destra della lettera.  Se così fosse, le tre (che poi, come detto, sono sei) fiammelle dell’alcova non potrebbero rappresentare le altrettante dignità di cui sopra, ottenute nel  1474, e quindi nello stesso anno del conseguimento del titolo ducale, in quanto inquartate con (e pertanto coeve della) sigla FC (quindi Federico Conte) e non di quella FD (Federico Duca), solo successivamente modificata in tal senso. C’è  di più, aggiungo io: stando al Ceccarelli questa è la cronologia delle onorificenze ottenute da Federico nel 1474: 18 Agosto: Giarrettiera; 11 Settembre: Ermellino (data confermata anche dal Lombardi). Come  ricordano Roeck e Tönnesmann, il titolo ducale fu conferito il 21 Agosto del 1474, e quindi “a cavallo” tra il conferimento di Giarrettiera e Ermellino. Da questo si deduce come sia impossibile che le tre fiammelle rappresentino le tre onorificenze (le due esaminate e il Gonfalonierato), giacché sono inquartate con la sigla FC(omes), che almeno per quanto riguarda l’Ermellino, non era più valida perché ai tempi  del conferimento, Federico era Duca da quasi un mese. 
Ma il Lombardi (I simboli di Federico di Montefeltro, sta in Piero e Urbino, pp. 135 e segg.) aggiunge particolari assai interessanti e lo fa partendo da un fregio erratico di pietra, presente nel palazzo ducale di Urbino (foto 2-3-4-5) . Il putto conserva nel viso (e qui c’è accordo tra il Lombardi e il Ceccarelli) le fattezze adolescenziali del viso di Federico.  Egli cavalca un grifone , tiene nella mano destra un libro e porta sulla spalla lo stemma Montefeltro. Ma è lo scudo che afferra il grifone a destare interesse: in esso infatti sono rappresentate delle fiammelle.  Sebbene il fregio sia da far risalire al 1459-60, è il profilo dell’adolescente Federico a suggerire il periodo cronologico da prendere in considerazione. A undici anni fu mandato in ostaggio a Venezia , come pegno in garanzia della seconda pace di Ferrara. Rimase là per quindici mesi, e in quel lasso di tempo fu accolto in una compagnia di giovani aristocratici, intrisa di ideali cortesi, “fra cui l’amore cavalleresco e trobadorico per le donne”  (Lombardi). Era la famosa Compagnia della Calza, “così chiamata perché tutti vestivano allo stesso modo, ostentando «le fiamme d’amore», tanto che venivano chiamati anche «Accesi». Secondo noi questa fu la divisa di Federico adolescente che poi, per ragioni di convenienza politica, si portò dietro per tutta la vita , vantandosi di questa sua giovanile e incorrotta fede negli ideali, specie con gli ambasciatori veneti che tentavano di corrompere la sua lealtà verso il papa e il re di Napoli (Lombardi) (foto 6). Nello studiolo, sotto alle fiammelle (foto 7) compare anche il verso di una canzone: “Jay pris amor a may devise…” (“ho scelto amore come mia divisa…”). Secondo il Lombardi anche il fatto che queste fiammelle siano inquartate con lettere scritte in gotico (prima FC e poi FD, come visto), sarebbe indicatore del fatto che “la loro radice risaliva ai tempi in cui ancora non erano state rivivificate le belle lettere rinascimentali di antica matrice romana”.
Il Ceccarelli conosce la lezione del Lombardi, in quanto la cita, ma finge di scordarsene, di fatto ricusandola (anche per mano del Bagatin*), dapprima dando credito alla tesi delle tre onorificenze (vedi righe precedenti) e poi perdendosi in barocche escursioni “sull’espressione visiva dell’incorrotta fedeltà di Federico agli elevatissimi ideali di vita..” ecc., ecc. degne del “miglior” araldista seicentesco. 

E in realtà (mi concedo una divagazione, anche per far inquadrare meglio una delle fonti a cui mi sono rivolto)  questo del Ceccarelli è un libro assai strano:  può dirsi prezioso, ricco com’è di meravigliosi aneddoti tratti da lunghissimi stralci (posti specialmente  in nota) di testi originali, corrispondenza e fonti, che restituiscono pennellate di vivide vita quotidiana (anche se soltanto dei “vip” del tempo) e dettagliato negli avvenimenti storici che certamente l’autore conosce a menadito, nonché utile per gli inserti sulle imprese feltresche. Ma certo la sua (comunque non poca) utilità, a nostro modestissimo parere, finisce qui. Chi volesse cercare una chiave critica delle gesta federiciane rimarrebbe deluso. L’ampolloso autore urbinate si inserisce piuttosto, con il suo libro, come l’ultimo (in senso cronologico, visto che il libro è del 2002…) tra i cronisti encomiastici che riempivano la Penisola con le loro righe grondanti lodi per il loro signore e il suo indiscusso buongoverno, esaltandone sino ad idealizzarle le virtù e tacendo i difetti e le ovvie ed inevitabili manchevolezze.  E così il Ceccarelli non riesce ad ammettere nemmeno –definendola: “fantasticare le più inaudite supposizioni…”- il fatto (da altri storici dato ormai per certo) di attribuire la paternità di Federico, non a Guidantonio, che in realtà sarebbe il nonno, ma a Bernardino Ubaldini della Carda (stemma Ubaldini in Urbino foto 8); oppure neppure accenna all’ipotesi (da altri storici data ormai per fatto certo) che dietro all’assassinio del legittimo Signore e Conte  di Urbino, Oddantonio, avvenuto nel 1444, ci sia la mano proprio del fratellastro (?) Federico (la stessa mano che, insieme ad altre,  ordì la Congiura dei  Pazzi), prontissimo, già dopo pochi giorni, a prendere le redini del comando. Pare persino ovvio, che con un modo così platealmente schierato di fare Storia, i nemici diventino tutti iniqui, ricolmi dei più orrendi e nefasti vizi (figuriamoci un po’ il povero Sigismondo Malatesta come poteva uscirne, se non come fosse “noto in tutta Italia per la sua subdola slealtà”, che “preferì la guerra anziché recarsi a Roma a discolparsi umiliandosi al cospetto del pontefice”, ecc. ecc. mentre ovviamente su quest’altro fronte Federico e il papa risplendevano in ogni frangente per umiltà, compassionevole pietà, lealtà e giustizia…, difensori da un certo punto in poi degli splendori della Cristianità, contro “le bandiere della mezzaluna, che garrivano ai limpidi cieli cristiani degli arabescati versetti del Corano, non promettenti alcunché di buono con la loro ricamata inintelleggibilità”). Per il Ceccarelli ciò che scrive il Paltroni neii suoi Commentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico Duca d’Urbino,   è oro colato da cui ricavare “vivida l’immagine complessa di quest’uomo singolarissimo che seppe armoniosamente conciliare e coniugare la dura vita del condottiero di eserciti col gusto tutto cortese e gentile del cultore delle humanae litterae da cui gli pervenne quella profonda conoscenza degli uomini e quella penetrante sapienza delle cose, che lo resero celebre in tutta Italia e in Europa per l’acutezza di giudizio, per il vasto sapere e il munifico mecenatismo”.  E questo funga da premessa e da istruzione per l’uso di questo libro, per molti aspetti (o comunque per me)  “arcaico”.

 

* Pier Luigi Bagatin asserisce (e il Ceccarelli come detto, riporta ciò nel suo libro) che l’ipotesi del Lombardi è “suggestiva” ma attende conferme, e nel frattempo non “assurge a prova piena, in quanto, nel variopinto arcipelago veneziano delle Compagnie della Calza” –più di trenta nell’elenco di Marin Sanudo di fine ‘400- gli “Accesi” sono gli ultimi a sorgere, e comunque dopo il 1533” e quindi  dopo un secolo esatto rispetto all’epoca di Federico undicenne, ostaggio a Venezia. Ma a questo punto il problema non è più solo “araldico” ma si fa storico tout court.

Nel segnalare in foto 8, un particolare araldico dell’”alcova” di cui si parlava prima, e che nelle foto 9-10-11 si può osservare una “migrazione” delle fiammelle tutt’intorno all’aquila feltresca , rimando ad altro “post” (il 2/B) un altro aspetto assai interessante relativo a quest’impresa.











 
 
NELLA PAGINA F.BOOK IL CAFFE' ARALDICO, ANTONIO CONTI POSTA UN SUO PEZZO APPARSO IN "NOBILTA'" CON CUI ESPONE TESI DEL TUTTO DIVERSE DALLE PRECEDENTI. ECCO QUA IL LINK http://www.scribd.com/doc/116102251/Un-Fregio-Enigmatico-Al-Palazzo-Ducale-Di-Urbino-2003

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